Incentivare o non incentivare: questo è il problema
Una cosa è sicura: il dibattito circa l’efficacia dei sistemi di incentivazione come strumento di motivazione delle persone è aperto, anzi apertissimo. La recente pandemia ha dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, come i sistemi di misurazione delle performance siano uno strumento imprescindibile nella “cassetta degli attrezzi” dei manager. D’altra parte, ha anche evidenziato come i sistemi di incentivazione collegati alla performance (cd. Pay for Performance – PFP) vadano maneggiati con estrema cura, soprattutto in tempi di grande incertezza: il rischio di avere un ritorno molto basso sull’investimento è sempre dietro l’angolo.
D’altra parte, i sistemi di incentivazione piacciono alle persone, sono un ottimo strumento per attrarre e trattenere i “talenti”, e se ben progettati possono decisamente contribuire a generare risultati eccezionali in rapporto ai costi.
Ma è davvero possibile costruire modelli efficaci? Il punto chiave, a ben vedere, è quello di essere capaci di adattare la ricetta e gli ingredienti al contesto ambientale, tenendo presente alcuni punti:
- Mantenere coerenza tra gli incentivi e la cultura, i valori e il “purpose” dell’azienda;
- Fissare obiettivi ambiziosi, ma “azionabili” dai soggetti interessati all’interno del loro spazio di autonomia
- Costruire un buon bilanciamento tra ottica di breve e di medio termine
- Mettere in palio premi “interessanti” in rapporto alla performance richiesta.
Ma attenzione, il rischio maggiore degli incentivi è insito nel loro stesso obiettivo: focalizzare l’attenzione su comportamenti specifici, significa di conseguenza escluderne altri. La recente teoria manageriale, facendo buon uso degli studi dei neuroscienziati e degli economisti comportamentali, ha dimostrato come i sistemi di incentivazione tradizionale tendono a funzionare poco e male in un contesto come quello in cui oggi si muovono le imprese, caratterizzato da dosi sempre maggiori di volatilità, incertezza, complessità e ambiguità (insomma, il famoso VUCA environment), proprio perché tendono a “focalizzare” l’azione e riducono la capacità di “pensiero laterale”. La turbolenza ambientale ha messo in crisi le strutture organizzative tradizionali, i sistemi tradizionali di misurazione della performance, e con essi anche i modelli di MBO basati sul binomio obiettivi individuali-risultati individuali, che non sono più in grado di stimolare quei comportamenti innovati e adattivi che sono funzionali ai bisogni delle imprese di oggi. È dimostrato che i modelli IF… THEN, per quanto complessi, siano da riservare a chi ricopre mansioni operative e che possono essere addirittura dannosi se applicati alla popolazione manageriale. Quindi, per dirla con Daniel Pink, perché ci si ostina ad applicarli[1]?
In effetti, non appare granché sensato… Come fare, quindi?
In base al contesto e ai destinatari, occorre definire con attenzione quale sia la configurazione della performance che vogliamo stimolare e premiare. Di conseguenza cambiano gli strumenti da utilizzare (retribuzione fissa o variabile, bonus individuali o di team, risultati o competenze, obiettivi economico-finanziari o operativi, e così via) e il mix ideale di questi ultimi.
Facile? No, a dire la verità per nulla.
Nella nostra esperienza di consulenti, in effetti, in situazioni in cui si ha la necessità di stimolare la creatività, l’adattabilità e la collaborazione, abbiamo verificato come sia molto più efficace ridurre il peso degli incentivi a favore della retribuzione fissa, misurare la performance dei team piuttosto che quella degli individui, e privilegiare metriche legate ad indicatori di tipo “comportamentale”, piuttosto che metriche result based. Così facendo, non mancano comunque i rischi da gestire: sbilanciando il sistema verso obiettivi di team, si rischia a volte di favorire il cd. “free riding”, e la riduzione del peso degli incentivi potrebbe in qualche modo scontentare i best performer. Inoltre, l’utilizzo di indicatori comportamentali comporta spesso una valutazione discrezionale, e quindi espone al rischio di una minore percezione di equità e meritocrazia.
D’altra parte, sebbene siano sempre di meno, esistono ancora molti business in cui la necessità di gestire la complessità e l’incertezza è inferiore, le organizzazioni sono più tradizionali e meno “spinte” sull’innovazione. Di conseguenza, logiche di incentivazione “classiche”, con alcune correzioni, portano ancora buoni risultati: funziona bene un approccio più semplice, in cui il peso degli incentivi è maggiore, l’approccio prevalente è focalizzato sull’”execution” a livello individuale piuttosto che di team, e le metriche sono collegate a risultati quali-quantitativi. In questo caso va posta maggiore attenzione, nel processo di definizione degli obiettivi, sia al “cascading” che all’integrazione tra gli obiettivi assegnati alle diverse funzioni aziendali. In caso contrario si potrebbero generare distorsioni, competizione interna o comportamenti opportunistici.
In conclusione, i sistemi di incentivazione rappresentano un ottimo strumento a servizio della reward strategy, ma richiedono, per essere davvero efficaci, un approccio strutturato, una valutazione attenta di costi, rischi e benefici, e l’adozione di metodologie differenti in relazione agli obiettivi e alle caratteristiche dell’impresa e del contesto in cui questa opera. Inoltre, come sempre, la carta vincente è un’attenta comunicazione degli obiettivi e dei principi di funzionamento, e dei vantaggi dei sistemi adottati.
[1] Per approfondire consigliamo il TED Talk di Daniel Pink: The puzzle of motivation https://www.ted.com/talks/dan_pink_the_puzzle_of_motivation
Partner di JobPricing, approda alla consulenza dopo aver maturato una pluriennale esperienza aziendale nel controllo di gestione. Esperto di integrazione di sistemi HR e di gestione di sistemi di elaborazione paghe, vanta un consolidato know-how nella digitalizzazione dei processi della funzione risorse umane.